E'
questo ciò che sono,
una superficie riflettente.
Un principio
archetipico di femminilità,
espresso da una incerta luce.
Ciò che è
nascosto, ciò che è celato,
ciò che è intuito, ciò che è sogno.
Sono un
riflesso, senza mai esser davvero reale.
lunedì 16 dicembre 2013
venerdì 18 ottobre 2013
Giochi proibiti
La segretaria mise in ordine la
scrivania: le matite allineate sulla destra dalla più consumata a quella meno, tutte rigorosamente
appuntite, la risma di fogli sulla sinistra a formare un perfetto
parallelepipedo, la cornice argentata con la foto del nipotino sorridente
nell’acqua, il computer perpendicolare alla scrivania e, dietro, la targhetta.
R.
Notte, addetta alla clientela.
Lucidava le lettere dorate ogni
mattina fino a farle splendere.
La sala d’aspetto era già piena:
molte donne coi loro animaletti al guinzaglio attendevano pazientemente il
proprio turno. Ognuna di loro, pensò la segretaria, aveva indosso molto più di
quanto lei riuscisse a guadagnare in un anno; ma quello infondo, non era posto
per gente comune, era un posto per clienti facoltosi e per una ristretta
cerchia degli stessi.
Mentre era assorta in questi
pensieri, l’ascensore si aprì ed una cliente entrò con il suo animale al
guinzaglio.
Tutti nella stanza si voltarono a
guardarla. Era esattamente la perfetta descrizione della sensualità: i fianchi
generosi, il seno burroso, la vita sottile, le gambe snelle e lunghe. Due occhi
di ghiaccio ammaliavano chiunque avesse il coraggio di guardarli. Il passo
sinuoso ipnotizzava, ballando una strana danza al suono dei tacchi risonanti
sul pavimento.
Si diresse direttamente alla
reception.
“Buongiorno Miss Redou ”
“Buongiorno cara.”
“Prego, la sala Rouge è pronta.
Da questa parte.”
Miss Redou non aveva bisogno di
fare la fila, e nessuno dei presenti si sarebbe mai sognato di polemizzare su
ciò: tutto quello che potevano fare, era restare a guardarla senza proferir
parola.
Attraversarono il corridoio. Le
pareti erano di un tenue e rilassante verde e su entrambi i lati vi si aprivano
porte, dalle quali provenivano i suoni soffocati, le risa e le grida dei
giochi. In fondo al corridoio, si apriva una porta rossa.
Sala
Rouge.
“Prego. Le auguro buon
divertimento”, disse la segretaria.
Miss Redou la congedò con un
sorriso ed entrò.
Dopo aver chiuso la porta dietro
di sé, tolse il guinzaglio al suo animaletto da compagnia e si accomodò su un
divano stile Luigi XIV. Accanto, sul tavolino, una serie di corde e legacci.
“Ed ora vediamo se ti ricordi ciò
che ti ho insegnato. Come ti chiami?”
“Mi chiamo Dusten, padrona.”
“E…?”
“E ti amo, padrona”.
Lei sorrise. Il gioco aveva
inizio.
lunedì 15 luglio 2013
Una lunga notte
Quella notte ne uscì indenne.Ma l’avrebbe ricordata
per sempre negli anni a venire, le sarebbe rimasta dentro come un marchio
impresso a fuoco, così come di fuoco, erano gli occhi del mostro, quegli occhi
che la fissavano pieni di un odio sconfinato e di una furia inaudia. Non
avrebbe dimenticato mai neppure quelli. Quella notte era riuscita a sfuggirgli
rifugiandosi nel bosco che circondava la casa.
La
mia maledetta casa.
Non sapeva bene come avesse fatto, ma aveva
spalancato la piccola porta d’ingresso, correndo via per i campi, incurante dei
piedi nudi e delle ferite che le pietre le provocavano. Le interessava solo
correre via, il più lontano possibile. Sentiva il mostro a pochi passi dietro
di lei, ne sentiva i passi pesanti sul terreno, poteva quasi percepirne il
fiato sulla pelle; era certa che avesse un ghigno a mo’ di sorriso stampato
sulla faccia.
“Ti piace giocare così?” le ringhiò, quasi divertito.
Lui era troppo veloce e lei poco più che una
bambina, un cucciolo spaventato che correva all’impazzata. Presto l’avrebbe
raggiunta. Sentì la paura invaderle la mente, ma, in qualche modo, riuscì a
controllarsi: non doveva cedere, doveva escogitare qualcosa e puntare tutto
sulle armi a sua disposizione. Era molto più agile del mostro e conosceva a
fondo quei boschi, ci giocava fin dalla tenera età insieme ai fratelli.
Istintivamente, virò di scatto verso un vecchio tronco semi abbattuto. Il
mostro era sempre più vicino, non avrebbe avuto il tempo di vedere l’ostacolo.
Non appena vi fu davanti, alla svelta, si infilò nella stretta fessura tra il
tronco ed il masso. Ma lui non fu altrettanto veloce né agile. Con un tonfo,
andò a sbattere la testa e ruzzolò all’indietro.
“Maledetta, non riuscirai a sfuggirmi!”
Quel piccolo intoppo lo aveva reso ancora più
famelico. Sembrava quasi che quella sorta di caccia, fosse un gioco per lui,
intriso di un perverso piacere.
“Giulia? Dove ti sei nascosta?”
La sua voce si fece ad un tratto dolce, ammaliante,
ma era solo un espediente perché dolce, il mostro, non lo era mai stato.
Giulia intuì che la soluzione migliore era lasciare
che le passasse avanti, facendogli credere di essersi rifugiata al fiume. Si
nascose dietro un cespuglio ed attese, con il cuore che le batteva a mille. Si
chiese se lui avesse potuto sentirlo, se quel suono che sembrava assordante
l’avrebbe tradita. Invece, incredibilmente, lo vide passarle davanti senza che
si accorgesse di nulla. Attese ancora qualche minuto immobile, fino a che
scorse un puntino luminoso che si muoveva sopra il fiume in cerca di lei.
Aveva
calcolato che sarei fuggita. Si è portato la torcia.
Quello era il momento giusto di agire, finalmente
era lei ad essergli alle spalle e a più di 30 metri di distanza. Si mosse
cautamente, attenta a non far rumore, ed in questo benedisse i suoi piedi
scalzi. In un primo momento pensò di correre verso la strada e fermare una
macchina, ma con orrore si ricordò che di notte nessun’auto attraversava quelle
campagne, ed inoltre sotto i lampioni sarebbe stata visibile. Scrutava la
strada in cerca di un’idea, di un riparo ed i suoi occhi incontrarono la
vecchia ruspa abbandonata. Si sarebbe rifugiata lì dentro e non si sarebbe più
mossa. In un lampo si avvicinò alla ruspa e, con uno scatto felino, si issò
sulla ruota e si infilò nel cassone senza far il benchè minimo rumore. Un
sorriso le sfiorò le labbra: quante volte si era nascosta lì dentro quando
giocava a nascondino coi fratelli? Non l’avevano mai scoperta, era un posto
sicuro. Respirando meno rapidamente, si concesse di sbirciare fuori: vedeva le
luci della propria abitazione a pochi metri da lei. Con sommo orrore, vide che
anche il mostro si avvicinava dalla sua parte. Si ricacciò in fretta nel
cassone e si premette forte le mani sulla bocca, temendo che lui avrebbe
sentito i singhiozzi. Per un folle istante pensò di arrendersi, di uscire allo
scoperto e lasciarsi trovare, forse lui sarebbe stato clemente, quella volta.
Ma poi si ricordò che clemente non lo era mai stato, nemmeno quando lei,
docile, aveva fatto tutto ciò che lui le chiedeva.
Lo sentì ridere, la fiutava, fiutava l’odore della
sua paura come un animale selvatico fiuta l’odore della preda. Era sempre più
vicino, era certa che l’avrebbe scoperta. Le lacrime iniziarono a solcarle il
volto copiose. Era la fine. Tutto finito.
Un rumore in lontananza, come di uno scalpiccìo.
“Eccoti! Non mi scappi Giulia!” urlò con una risata.
Qualsiasi cosa fosse, le aveva salvato la vita.
Molto probabilmente un animale selvatico o un gatto che si era spaventato
sentendo avvicinarsi il mostro. Anche quella piccola creaturina percepiva
l’aura di cattiveria. Giulia la ringraziò mentalmente e discese dal cassone,
diretta verso il fiume. Quando si mise al riparo, dietro una roccia bianca, lo
sentì urlare di frustrazione, mentre sbatteva la porta di casa.
“Dove cazzo ti sei nascosta?”
Era finita. Tremava ancora per il freddo e la paura:
era una gelida notte di ottobre e lei aveva solo la camicia da notte addosso.
Ma era finita. Quella notte il mostro non l’aveva avuta vinta. Quella notte suo
padre non l’avrebbe picchiata.
martedì 21 maggio 2013
Una donna complicata
"Mi dispiace. Sei troppo complicata per me."
Quella frase le risuonava nelle orecchie da quelle che sembravano ore. Stranamente non sentiva dolore; non c'erano lacrime a rigare il suo viso, non c'erano singhiozzi da soffocare, non c'era la rabbia, non c'era la voglia di strappare le foto e cancellare le mail. Non c'era niente di niente. Come se non fosse stata una sorpresa. Come se lo spazio di un attimo si fosse dilatato a diventare una eternità e le avesse concesso il tempo di abituarsi.
Nascono apposta le persone complicate?
Vengono apposta le cose difficili?
Ebbe tutto il tempo di interrogarsi e di rispondersi.
"Non sono troppo complicata. Sei solo troppo coglione per vederlo."
Non le dispiacque affatto.
Quella frase le risuonava nelle orecchie da quelle che sembravano ore. Stranamente non sentiva dolore; non c'erano lacrime a rigare il suo viso, non c'erano singhiozzi da soffocare, non c'era la rabbia, non c'era la voglia di strappare le foto e cancellare le mail. Non c'era niente di niente. Come se non fosse stata una sorpresa. Come se lo spazio di un attimo si fosse dilatato a diventare una eternità e le avesse concesso il tempo di abituarsi.
Nascono apposta le persone complicate?
Vengono apposta le cose difficili?
Ebbe tutto il tempo di interrogarsi e di rispondersi.
"Non sono troppo complicata. Sei solo troppo coglione per vederlo."
Non le dispiacque affatto.
lunedì 13 maggio 2013
Caffè
Quando
mi preparo il caffè, di solito, faccio la moka da due tazze: una per me
e l'altra per la "per me di più tardi". Lei è poco pretenziosa, lo beve
anche freddo e poco zuccherato. Io adoro berlo caldo, comodamente
seduta al sole e con un biscottino da intingere. Lei no, la me di più
tardi, lo beve anche in piedi e di corsa. Probabilmente dovrei
soffermarmi a pensare sul perchè mi riferisca a me stessa come due
entità separate, come mai la me del futuro è bistrattata e poco
considerata dalla me del presente. Potrei tranquillamente farle un caffè
caldo anche dopo, invece di dale i miei scarti.
Ma adesso non ho tempo per pensarci, è uscito il caffè.
Ma adesso non ho tempo per pensarci, è uscito il caffè.
venerdì 10 maggio 2013
Venerdì.
Un altro Venerdì bucato.
Da questo scivola fuori
il suo verde acido
tipico dei Venerdì bucati.
Il suo puzzo nauseante
mi crea false allucinazioni.
lunedì 22 aprile 2013
Mr. Schifo
Si guardava allo specchio da un
tempo lunghissimo. Non riusciva a riconoscersi nell’immagine riflessa, ma ciò
non la spaventava affatto, anzi, le donava un senso di benessere, quasi come
fosse parlare con qualcuno che la conoscesse da anni. Ma non che l’amasse.
Eppure lo sapeva bene, non era lei. Era il signor Buio Fosforescente che di
cognome faceva Schifo.
E Mr. Schifo aveva il suo stesso
volto, per un’ironia crudele.
Si era ormai abituata a sentirlo
sopra la pelle, come un vestito attillato; poteva, di notte, quasi vederlo
malignamente brillare, nella speranza di attrarre qualcuno, al solo scopo di
far bella mostra di sé; attraverso lo specchio le ricordava quanto fosse stata
sciocca a lasciarlo entrare, quanto continuasse ad essere sciocca nel non
lasciarlo uscire.
Gli occhi, trasparenti come
vetro, indugiarono sui tatuaggi. Aveva il corpo pieno,
mercoledì 3 aprile 2013
venerdì 29 marzo 2013
venerdì 15 febbraio 2013
Pensiero
Ho letto il mio primo libro a 4 anni. Ho
imparato a leggere perchè mio fratello andava a scuola ed io non volevo
esser da meno; ho imparato a leggere per sfida. Era un libricino
sottile, ma non di quelli per bambini, con le scritte enormi e troppe
figure, no, era un libro vero. Una favola.
"La gatta bianca", di Madame D'Aulnoy con traduzione di Collodi.
Ho iniziato in grande.
Dopo averci faticato su, aver imparato a leggere, aver consumato le pagine, in quel preciso istante, quando la parola Fine segnò il mio primo traguardo, lì decisi cosa avrei voluto essere da grande.
Cosa avrei voluto essere, non fare.
Una scrittrice.
"La gatta bianca", di Madame D'Aulnoy con traduzione di Collodi.
Ho iniziato in grande.
Dopo averci faticato su, aver imparato a leggere, aver consumato le pagine, in quel preciso istante, quando la parola Fine segnò il mio primo traguardo, lì decisi cosa avrei voluto essere da grande.
Cosa avrei voluto essere, non fare.
Una scrittrice.
venerdì 8 febbraio 2013
sabato 2 febbraio 2013
Riflesso
Passeggiava. Con le dita accarezzava
l’aria; un vezzo che si portava dietro fin da bambina, anche ora, che
bambina non lo era più.
Il parco era solitario: nessuno
passeggiava per i suoi viali, nessuna risata riecheggiava tra i suoi
rami, nessuna coppia amoreggiava sui suoi prati.
L’inverno si era portato via le persone come le foglie.
C’era solo lei e le sue dita che accarezzavano l’aria. Si fermò sulle rive del laghetto e si sedette a terra. Non le importava di sporcarsi i vestiti, amava quel contatto, amava accarezzare anche la terra come l’aria. Con un dito toccò la superficie dell’acqua, vi scivolò sopra, come disegnando su uno specchio. L’acqua sembrava risponderle, come se al di là qualcun altro stesse facendo lo stesso gioco. Si sporse e vide riflessa un’altra se stessa, del tutto uguale nell’aspetto, ma diversa nella vita: la se stessa nello specchio. Aveva scoperto la se stessa nello specchio intorno ai 13 anni, quando ogni donna subisce il cambiamento e vorrebbe ribellarsi; lì vi trovava rifugio: la se stessa nello specchio era a volte ancora bambina, a volte già donna. Ora la vedeva riflessa sul lago. Accanto a lei c’era un giovane sorridente, sembrava felice, sembrava vivo, era ancora avivo con la se stessa nello specchio, si sorridevano e si amavano.
Irou.
Pallido ricordo di un’esistenza mai vissuta. Un bacio mai dato. Qualcuno mai conosciuto la cui mancanza brucia. Come passarsi un pezzo di vetro sulla pelle.
Avrei saputo amarti se non te ne fossi andato così presto.
Una lacrima scese lungo il viso e cadde nell’acqua, dissolvendo per un momento il riflesso.
Anche la se stessa nello specchio era di nuovo sola.
C’era solo lei e le sue dita che accarezzavano l’aria. Si fermò sulle rive del laghetto e si sedette a terra. Non le importava di sporcarsi i vestiti, amava quel contatto, amava accarezzare anche la terra come l’aria. Con un dito toccò la superficie dell’acqua, vi scivolò sopra, come disegnando su uno specchio. L’acqua sembrava risponderle, come se al di là qualcun altro stesse facendo lo stesso gioco. Si sporse e vide riflessa un’altra se stessa, del tutto uguale nell’aspetto, ma diversa nella vita: la se stessa nello specchio. Aveva scoperto la se stessa nello specchio intorno ai 13 anni, quando ogni donna subisce il cambiamento e vorrebbe ribellarsi; lì vi trovava rifugio: la se stessa nello specchio era a volte ancora bambina, a volte già donna. Ora la vedeva riflessa sul lago. Accanto a lei c’era un giovane sorridente, sembrava felice, sembrava vivo, era ancora avivo con la se stessa nello specchio, si sorridevano e si amavano.
Irou.
Pallido ricordo di un’esistenza mai vissuta. Un bacio mai dato. Qualcuno mai conosciuto la cui mancanza brucia. Come passarsi un pezzo di vetro sulla pelle.
Avrei saputo amarti se non te ne fossi andato così presto.
Una lacrima scese lungo il viso e cadde nell’acqua, dissolvendo per un momento il riflesso.
Anche la se stessa nello specchio era di nuovo sola.
venerdì 1 febbraio 2013
Ali
Sedeva con le gambe nel vuoto. La
città ai suoi piedi era fradicia ed incurante di ciò che succedeva all’infuori
di se stessa. Anche lui era fradicio, ma ne era felice: la pioggia, la nebbia,
il cielo torvo gli procuravano un senso di benessere, come tornare a respirare
dopo essere stati a lungo sott’acqua. Non a caso aveva scelto quel giorno.
La sentì avvicinarsi, camminava
lenta alle sue spalle. Se pur non la vedeva, ne poteva immaginare il movimento:
i capelli che le ricadevano scomposti sulle spalle, il seno ondeggiante che
sfiorava la maglietta, i fianchi e le gambe sottili, strette nei jeans. Avrebbe
passato l’eternità a guardarla. Era così delicata, così sottile, come un velo
che nascondeva chissà quali segreti, ma che lasciava trasparire solo le ombre.
Lei non gli aveva mai permesso di attraversare quel velo, nonostante tutto.
“Ciao” la sua voce era miele
mista a paura.
“Non dovresti essere qui. Te lo
avevo scritto nella lettera.”
“Lo so. Ma sai che non ascolto
mai.” un sorriso. “Non farlo Moth” un tremore.
“Devo farlo Lis. Sai, ho ancora
le ali, credo di averle. Devo volare, devo andare via, e questo è l’unico modo
che ho.”
“Non farlo Moth, non è l’unico
modo, ne troveremo uno più sano.”
“Lis muori con me. Muori con me e
voleremo in due”
“In tre” lo corresse lei. “Lo
ucciderei se volassi con te.”
“Sarebbe il regalo più bello che
tu possa fargli. Non vedrebbe mai la sofferenza, non subirebbe mai ciò che hanno
subito i suoi genitori, non vivrebbe mai ciò che tu vivi. Il regalo più grande
sarebbe volare con noi.”
“Tu deliri. Non posso farlo.”
Il silenzio si fece assordante.
“Guarda ogni giorno quassù, dalla
finestra di casa. Un giorno mi vedrai volare anche tu.”
“Moth aspetta…”
Ma egli non la sentiva più, aveva
spiegato le sue maestose, invisibili ali nere ed era volato giù, sull’asfalto.
Lei rimase a fissare il vuoto,
incurante del mondo, per un tempo interminabile.
Non sentiva nulla. Era tutto
fermo, immobile.
Una piuma nera le sfiorò il viso.
Ed esplose il dolore.
Iscriviti a:
Post (Atom)